mercoledì 25 febbraio 2015

Il mare racchiuso tra me e te di Silvia Littardi





Si svegliò quando si accorse che le stava cingendo la vita con un braccio, avvicinandola a sé.
Sorrise mentre le baciava piano il collo e le spalle, ma tristemente: uscendo dal torpore i ricordi e le preoccupazioni riprendevano colore, tornando vividi.
Era inutile parlarne ancora, rischiando di rovinare quelle ultime ore, così si limitò a voltarsi e a tuffare la testa nell’incavo della sua spalla, abbracciandolo e premendosi contro il suo petto.
Non lo vedeva, ma poteva quasi sentirlo sorridere con dolcezza mentre le accarezzava i capelli.

Ci stavano pensando entrambi, ma per un tacito accordo si poteva ancora fingere che non fosse così. Alla fine fu lui a rompere il silenzio: «È quasi ora». Lo disse con una punta di malinconia, ma con un tono che non lasciava spazio alle proroghe. Lei chiuse un attimo gli occhi e con un sospiro cacciò fuori l’indecisione: avrebbe avuto tutto il tempo per fare la lagna più tardi, adesso decise, non era proprio il momento. «Tu vai pure a lavarti, io ti preparo qualcosa da mangiare e il thermos». Si diedero ancora un bacio, prima di sciogliere l’intrico dei corpi e alzarsi.

Guardando il mare dalla finestra ebbe un brivido, allora prese lo scialle blu dalla sedia, se lo gettò sulle spalle e tornò ad appoggiarsi al vetro, cercando di godere il tepore degli ultimi raggi della giornata. Tendendo l’orecchio riusciva a sentirlo muoversi nella camera. Ridacchiò ascoltando le brevi imprecazioni che accompagnavano la ricerca del vestiario. Nel silenzio della casa vuota le sarebbero mancate anche quelle. Alla fine comparve sulla soglia della cucina.

La prima volta che l’aveva visto indossava gli stessi abiti. Anche se allora era appena tornato. Lei e le sue amiche erano andate a vederli sbarcare per trascorrere diversamente il pomeriggio, per approfittare del raro evento in grado di spezzare la monotonia dell’anno. Doveva essere un gioco. Lui ci aveva scherzato sin dal primo momento: «Starò qui solo per sei mesi, ma non sarà un problema. Probabilmente ci stancheremo molto prima».
E come due cretini avevano finito con l’innamorarsi.

Si salutarono sulla veranda. Accompagnarlo sino al porto avrebbe solo prolungato lo strazio, senza contare che, lui non l’avrebbe ammesso, rischiava di metterlo in imbarazzo di fronte agli altri. Voleva evitare scene melodrammatiche: se fosse andata con lui avrebbe finito per sedersi sulla punta del molo, a guardare la nave allontanarsi sinché non fosse diventata un puntino all’orizzonte. No, era stato molto meglio baciarlo un’ultima volta sotto le fronde degli ulivi e poi guardarlo dirigersi verso la spiaggia. Per poi tornare in casa e finalmente piangere.

Sulla punta del molo ci andò lo stesso, ma a notte fonda. La prima sera non ce l’aveva fatta ad affrontare il letto vuoto, con il cuscino che conservava ancora il suo odore. Aveva divelto le lenzuola, disfatto la stanza, messo tutto alla serena ed era uscita. Trovò lo scoglio meno scomodo che le riuscì, si sedette e prese a fissare i mille frammenti di luce seminati tra le onde. Ci mancava solo la luna piena a sbeffeggiarla.

Erano già passati due mesi quando arrivò la prima lettera. Si impose di leggerla con calma e quando vide la firma non riuscì a trattenere un sorriso: le scriveva come se si fossero appena salutati, raccontandole buffi aneddoti della vita in mare e descrivendole i posti che aveva visitato. Nessun rimpianto, nessuna promessa. Solo nell’ultima riga si era lasciato scappare una punta di sentimentalismo: «Non riesco a smettere di pensarti». «Neanch’io» sussurrò lei.

Avevano parlato spesso del momento in cui si sarebbero divisi ed erano d’accordo che sarebbe stato inutile e crudele chiedersi a vicenda di aspettare. Si sarebbero salutati e basta, grati per quei mesi ma senza illusioni destinate a infrangersi. Si rigirò la lettera tra le dita ancora un momento prima di infilarla nel cassetto del comodino. Ringraziò mentalmente per quel regalo inaspettato, ma andò a dormire con la convinzione che non ne avrebbe ricevuti altri.

Le lettere arrivarono comunque. Non spesso ma ogni due o tre mesi, regolarmente. Il tono era sempre lo stesso: tranquillo e spensierato, le storie esotiche si intrecciavano ai piccoli dettagli.
Per qualche tempo continuò ad imporsi un cinico realismo. Prima o poi si sarebbe stancato, avrebbe incontrato un’altra, doveva essere preparata ad un futuro silenzio. Alla fine però non poté impedirsi di sperare, mentre ogni parola andava ad alimentare quella tenue fiammella.

«Questa è l’ultima lettera che riceverai da me». Sentì il cuore fermarsi, per poi riprendere a un ritmo folle «Se riuscirò ad essere abbastanza veloce, quando leggerai queste righe sarò già arrivato, ma se così non fosse non preoccuparti. Sto tornando e questa volta, te lo prometto, ti toccherà sopportarmi molto più a lungo». Fece per correre fuori, ma si fermò sulla soglia sentendosi terribilmente stupida. Posò con delicatezza la lettera sul tavolo, sorrise guardando il disordine in cui versava la casa e si rimboccò le maniche.

Arrivata la sera lasciò che l’aroma del caffè riempisse la cucina, poi andò in camera. Tirò fuori dal cassetto il fascio di buste e, stringendolo come se fosse una reliquia, andò a sedersi sotto il portico. Con le lettere in grembo e la tazza accanto a sé si incantò per un attimo a osservare il mare in lontananza. La serata era fresca, ma non sentiva più i brividi.

lunedì 23 febbraio 2015

Il commento di Rinaldo Corso alle poesie di Vittoria Colonna



Rinaldo Corso nacque a Verona il 15 febbraio 1525 da Ercole Macone Corso, condottiero al servizio della Repubblica Veneta, e da Margherita Merli, ma trascorse l’adolescenza a Correggio, città natale della madre, dove la famiglia poi si trasferì in seguito alla morte di Ercole, avvenuta durante l’assedio di Cremona il 15 agosto 1526.
Dopo i primi studi sotto la guida di Bartolomeo Zanotti, il Corso si stabilì a Bologna per perfezionarsi in diritto alla scuola di Andrea Alciato e Mariano Sozzini. All’età di soli sedici anni, durante le vacanze estive a Correggio, si dedicò al commento di 158 componimenti di Vittoria Colonna (1492-1547), una delle prime celebri poetesse italiane e moglie del marchese di Pescara Ferrante di Avalos. Legata da una profonda amicizia con i maggiori poeti e artisti del tempo, fra cui Michelangelo e Galeazzo di Tarsia, Vittoria Colonna scelse come tema dominante delle sue Rime l’amore per il marito e il dolore per la sua perdita, vissuto in termini di alta spiritualità. Un ruolo centrale nella poetica di Vittoria Colonna è occupato, inoltre, dal profondo travaglio religioso, che la portò ad accostarsi temporaneamente alle idee riformistiche, per poi tornare all’ortodossia negli ultimi anni della sua vita.
L’annotazione alle Rime Amorose e Spirituali della marchesa di Pescara da parte di Rinaldo Corso (impresa in quegli anni assolutamente innovativa, dal momento che l’autrice era ancora in vita) avvenne dunque nel 1541.



Lo affermò lo stesso autore nella lettera di dedica a Veronica Gambara che accompagna l’edizione del suo commento del 1543 (nella lettera, datata Bologna 15 febbraio 1542, il Corso accennò, infatti, alle ‘Rime della divina Vittoria da me la ‘state passata isposte’). L’opera fu probabilmente terminata per la fine dell’estate, prima del suo rientro a Bologna per proseguire gli studi.
Nel 1543 Rinaldo Corso decise di pubblicare solamente la parte del suo commento: quella consacrata alle Rime Spirituali.
L’opera completa vide la luce, dopo essere stata sottoposta ad una consistente rielaborazione, che non intaccava tuttavia l’ordinamento dei testi, a Venezia presso i Sessa, molti anni dopo, nel 1558.

Un esemplare di questa edizione è conservato nel Fondo Molli della Biblioteca Marazza di Borgomanero (AC 0254).
(Elisa Simonotti)



Si veda anche:
https://www.academia.edu/10719284/L_ESPOSITIONE_DI_RINALDO_CORSO_ALLE_RIME_DI_VITTORIA_COLONNA


http://sistemabibliotecariomedionovarese.blogspot.it/2015/02/libri-rari-preziosi-curiosi-rinaldo.html