Si svegliò quando si accorse che le stava cingendo la
vita con un braccio, avvicinandola a sé.
Sorrise mentre le baciava piano il collo e le spalle, ma
tristemente: uscendo dal torpore i ricordi e le preoccupazioni riprendevano
colore, tornando vividi.
Era inutile parlarne ancora, rischiando di rovinare
quelle ultime ore, così si limitò a voltarsi e a tuffare la testa nell’incavo
della sua spalla, abbracciandolo e premendosi contro il suo petto.
Non lo vedeva, ma poteva quasi sentirlo sorridere con
dolcezza mentre le accarezzava i capelli.
Ci stavano pensando entrambi, ma per un tacito accordo si
poteva ancora fingere che non fosse così. Alla fine fu lui a rompere il
silenzio: «È quasi ora». Lo disse con una punta di malinconia, ma con un tono
che non lasciava spazio alle proroghe. Lei chiuse un attimo gli occhi e con un
sospiro cacciò fuori l’indecisione: avrebbe avuto tutto il tempo per fare la
lagna più tardi, adesso decise, non era proprio il momento. «Tu vai pure a
lavarti, io ti preparo qualcosa da mangiare e il thermos». Si diedero ancora un
bacio, prima di sciogliere l’intrico dei corpi e alzarsi.
Guardando il mare dalla finestra ebbe un brivido, allora
prese lo scialle blu dalla sedia, se lo gettò sulle spalle e tornò ad
appoggiarsi al vetro, cercando di godere il tepore degli ultimi raggi della
giornata. Tendendo l’orecchio riusciva a sentirlo muoversi nella camera.
Ridacchiò ascoltando le brevi imprecazioni che accompagnavano la ricerca del
vestiario. Nel silenzio della casa vuota le sarebbero mancate anche quelle.
Alla fine comparve sulla soglia della cucina.
La prima volta che l’aveva visto indossava gli stessi
abiti. Anche se allora era appena tornato. Lei e le sue amiche erano andate a
vederli sbarcare per trascorrere diversamente il pomeriggio, per approfittare
del raro evento in grado di spezzare la monotonia dell’anno. Doveva essere un
gioco. Lui ci aveva scherzato sin dal primo momento: «Starò qui solo per sei
mesi, ma non sarà un problema. Probabilmente ci stancheremo molto prima».
E come due cretini avevano finito con l’innamorarsi.
Si salutarono sulla veranda. Accompagnarlo sino al porto
avrebbe solo prolungato lo strazio, senza contare che, lui non l’avrebbe
ammesso, rischiava di metterlo in imbarazzo di fronte agli altri. Voleva
evitare scene melodrammatiche: se fosse andata con lui avrebbe finito per
sedersi sulla punta del molo, a guardare la nave allontanarsi sinché non fosse
diventata un puntino all’orizzonte. No, era stato molto meglio baciarlo un’ultima
volta sotto le fronde degli ulivi e poi guardarlo dirigersi verso la spiaggia.
Per poi tornare in casa e finalmente piangere.
Sulla punta del molo ci andò lo stesso, ma a notte fonda.
La prima sera non ce l’aveva fatta ad affrontare il letto vuoto, con il cuscino
che conservava ancora il suo odore. Aveva divelto le lenzuola, disfatto la
stanza, messo tutto alla serena ed era uscita. Trovò lo scoglio meno scomodo
che le riuscì, si sedette e prese a fissare i mille frammenti di luce seminati
tra le onde. Ci mancava solo la luna piena a sbeffeggiarla.
Erano già passati due mesi quando arrivò la prima
lettera. Si impose di leggerla con calma e quando vide la firma non riuscì a
trattenere un sorriso: le scriveva come se si fossero appena salutati,
raccontandole buffi aneddoti della vita in mare e descrivendole i posti che
aveva visitato. Nessun rimpianto, nessuna promessa. Solo nell’ultima riga si
era lasciato scappare una punta di sentimentalismo: «Non riesco a smettere di
pensarti». «Neanch’io» sussurrò lei.
Avevano parlato spesso del momento in cui si sarebbero
divisi ed erano d’accordo che sarebbe stato inutile e crudele chiedersi a
vicenda di aspettare. Si sarebbero salutati e basta, grati per quei mesi ma
senza illusioni destinate a infrangersi. Si rigirò la lettera tra le dita
ancora un momento prima di infilarla nel cassetto del comodino. Ringraziò
mentalmente per quel regalo inaspettato, ma andò a dormire con la convinzione
che non ne avrebbe ricevuti altri.
Le lettere arrivarono comunque. Non spesso ma ogni due o
tre mesi, regolarmente. Il tono era sempre lo stesso: tranquillo e spensierato,
le storie esotiche si intrecciavano ai piccoli dettagli.
Per qualche tempo continuò ad imporsi un cinico realismo.
Prima o poi si sarebbe stancato, avrebbe incontrato un’altra, doveva essere
preparata ad un futuro silenzio. Alla fine però non poté impedirsi di sperare,
mentre ogni parola andava ad alimentare quella tenue fiammella.
«Questa è l’ultima lettera che riceverai da me». Sentì il
cuore fermarsi, per poi riprendere a un ritmo folle «Se riuscirò ad essere
abbastanza veloce, quando leggerai queste righe sarò già arrivato, ma se così
non fosse non preoccuparti. Sto tornando e questa volta, te lo prometto, ti
toccherà sopportarmi molto più a lungo». Fece per correre fuori, ma si fermò
sulla soglia sentendosi terribilmente stupida. Posò con delicatezza la lettera
sul tavolo, sorrise guardando il disordine in cui versava la casa e si rimboccò
le maniche.
Arrivata la sera lasciò che l’aroma del caffè riempisse la
cucina, poi andò in camera. Tirò fuori dal cassetto il fascio di buste e,
stringendolo come se fosse una reliquia, andò a sedersi sotto il portico. Con
le lettere in grembo e la tazza accanto a sé si incantò per un attimo a
osservare il mare in lontananza. La serata era fresca, ma non sentiva più i
brividi.