giovedì 11 dicembre 2014

Autunno sul lago di Fabio Sacco




Isola di San Giulio immortalata dal lungolago di Pella durante un piovoso pomeriggio d'autunno.

Questa è la descrizione di una delle più recenti immagini di Fabio Sacco, fotografo che ha esordito con la sua prima mostra, dal titolo Laghi, pochi mesi fa, dal 18 al 26 ottobre, presso lo spazio espositivo La Vetrina di Borgosesia (VC).

Il paesaggio lacustre, molto spesso, è stato fonte di ispirazione per artisti, scrittori e poeti. Basta pensare, ad esempio, a Vittorio Sereni, il quale ha tratto dal periodo d'infanzia trascorso a Luino e nei luoghi limitrofi al lago Maggiore la sua suggestione poetica più elevata.

Non sono da meno anche le sponde del lago d'Orta. Non si può, del resto, non pensare alla bellissima poesia Sul lago d'Orta di Eugenio Montale. L'opera è stata scritta durante un soggiorno del poeta nel giugno del 1975 e pubblicata sulle pagine del Corriere della sera il 26 ottobre dello stesso anno, all'indomani della notizia del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura (si veda Agosti Stefano - Carena Carlo, Il lago di Montale, Novara, Interlinea, 1996). Successivamente, nel 1977, il componimento venne pubblicato nella raccolta Quaderno di quattro anni.



Sul lago d'Orta

Le Muse stanno appollaiate
sulla balaustrata
appena un filo di brezza sull'acqua
c'è qualche albero illustre
la magnolia il cipresso l'ippocastano
la vecchia villa è scortecciata
da un vetro rotto vedo sofà ammuffiti
e un tavolo da ping-pong. Qui non viene nessuno
da molti anni. Un guardiano era previsto
ma si sa come vanno le previsioni.
E' strana l'angoscia che si prova
in questa deserta proda sabbiosa erbosa
dove i salici piangono davvero
e ristagna indeciso tra vita e morte
un intermezzo senza pubblico. E'
un'angoscia limbale sempre incerta
tra la catastrofe e l'apoteosi
di una rigogliosa decrepitudine.
Se il bandolo del puzzle più tormentoso
fosse più che un'ubbia
sarebbe strano trovarlo dove neppure un'anguilla
tenta di sopravvivere. Molti anni fa c'era qui
una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode
ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi
da essere custoditi.

venerdì 5 dicembre 2014

Figure femminili della poesia cinquecentesca

Un fenomeno insolito e al tempo stesso straordinario nel panorama letterario del XVI secolo è legato al fiorire di una ricca produzione petrarchista al femminile: a partire dagli anni Trenta, infatti, molte donne di diversa estrazione sociale e area geografica si dedicarono alla poesia. Nel 1538 a Parma fu pubblicata la prima edizione non autorizzata delle Rime di Vittoria Colonna, alla quale seguì quella dei canzonieri di Tullia d’Aragona (1547), Isabella di Morra (1552), Veronica Gambara (1553), Gaspara Stampa (1554), Chiara Matraini (1555), Laura Battiferri (1560), Veronica Franco (1576). Nel 1559, inoltre, Lodovico Domenichi curò una raccolta di liriche, dal titolo Rime diverse d’alcune nobilissime e virtuosissime donne, comprendente i testi di 53 poetesse. E’ la prima volta nella storia della produzione letteraria italiana che le donne si affermano come gruppo culturale omogeneo e acquistano una considerazione pari a quella dei loro colleghi.

Diversi sono i fattori culturali, letterari e sociali che hanno favorito l’emergere di una presenza femminile così ampia sulla scena letteraria italiana nella prima metà del Cinquecento. Generalmente, in ambito poetico, a partire dalla tradizione classica, la figura femminile viene presa in esame in quanto oggetto di lode, amore e attrazione. Anche la produzione in volgare si indirizza verso la donna che non è un soggetto parlante ma è il mezzo attraverso cui l’uomo percepisce il sentimento amoroso; nei casi in cui la donna è interlocutrice tendenzialmente rappresenta uno sdoppiamento della voce maschile.

Chi fa acquistare al personaggio femminile più spessore è sicuramente Giovanni Boccaccio ne L’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44 circa), lungo monologo in prosa diviso in nove capitoli preceduti da un Prologo. La vicenda, ambientata a Napoli, è narrata in prima persona da una donna della nobile società partenopea, che si cela sotto le pseudonimo letterario di Fiammetta. La novità dell’opera è evidente sin dal Prologo affidato direttamente alla voce della protagonista-narratrice, che rivendica la contemporaneità e la verità della sua storia. Anche fra i personaggi del Decameron emergono molte figure femminili di un certo rilievo, dotate in molti casi di personalità e carattere. La qualità della presenza femminile (dominante nella brigata) rivela sicuramente la profonda novità ideologica dell'opera del Boccaccio.

Inoltre, nel XVI secolo cambia anche la situazione sociale e si verifica una maggiore apertura alle donne da parte degli ambienti culturali e cortigiani modellati attorno all’uso della lingua volgare e dove si afferma l’eccellenza della poesia petrarchesca. In seguito alla ‘questione della lingua’ e alla pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo nel 1525, la lingua usata da Petrarca nei Fragmenta diventa un elemento nuovo ed unificante, facile da acquisire in quanto presenta norme chiare e precise. Ciò ha sicuramente contribuito a favorire la cultura femminile e rappresenta una spinta a quello che poteva essere un fenomeno latente.

Si diffonde, poi, una nuova considerazione dell’amore: se per gli umanisti l’amore, considerato un sentimento destabilizzante, era da relegare all’età giovanile anche per quanto riguarda la produzione poetica, con il neoplatonismo fiorentino l’amore assume un significato più nobile in quanto tramite tra l’umano e il divino. Nel primo Cinquecento vengono pubblicati diversi trattati sull’amore di impostazione filosofica: si vedano il De amore (1508) di Francesco Cattani, i Dialoghi d’amore di Leone Ebreo composti tra il 1501-1506 e pubblicati nel ’35, il Libro de natura de amore (1525) di Mario Equicola. La legittimazione della lirica amorosa è espressa da Bembo negli Asolani (1505), dialogo in tre libri sulla natura di Amore, in cui si individuano i presupposti filosofici anche della lirica petrarchesca.

Questa serie di fattori sta certamente alla base della poesia femminile cinquecentesca ma probabilmente non sarebbe bastata senza la presenza di una auctoritas specifica: Vittoria Colonna (1492-1547), figlia del connestabile di Napoli Fabrizio Colonna e moglie del marchese di Pescara Ferrante di Avalos. Il suo epistolario rivela una fitta rete di amicizie con i maggiori poeti e artisti del tempo, fra cui Michelangelo e Galeazzo di Tarsia, che in un sonetto la definì 'palma leggiadra e viva'. Il tema dominante delle sue Rime è legato all’amore per il marito e al dolore per la sua perdita, vissuto in termini di alta spiritualità. Nell’edizione del 1558 le sue rime sono suddivise 'in vita' e 'in morte' del marito, secondo il modello del canzoniere petrarchesco. Un ruolo centrale nella poetica di Vittoria Colonna è occupato, inoltre, dal profondo travaglio religioso, che la portò ad accostarsi temporaneamente alle idee riformistiche, per poi tornare all’ortodossia negli ultimi anni della sua vita.


Scrivo sol per sfogar l’interna doglia,
Ch’al cor mandar le luci al mondo sole;
    E non per giunger luce al mio bel Sole,
    Al chiaro spirto, all’ onorata spoglia.
 Giusta cagione a lamentar m’invoglia,
    Ch’io scemi la sua gloria assai mi dole;
    Per altra lingua, e più saggie parole,
Convien ch’a Morte il gran nome si toglia.
 La pura fè, l’ardor, l’intensa pena
    Mi scusi appo ciascun, che ’l grave pianto
    E’ tal, che tempo, nè ragion l’affrena.
 Amaro lagrimar, non dolce canto,
    Foschi sospiri, e non voce serena,
    Di stil no, ma di duol mi danno il vanto.


Nobile e amica di poeti fu anche la poetessa lombarda Veronica Gambara (1485-1550), che, rimasta vedova a soli trentatré anni, si trovò a reggere le redini della piccola signoria di Correggio. Le sue Rime, ispirate in gran parte all’amore per il marito Giliberto, presentano un’impronta originale, soprattutto quando il discorso si innalza a una dolente meditazione sull’infelicità connaturata all’esistenza umana. Pubblicate postume nel 1553, le poesie di Veronica Gambara ottennero l’approvazione, fra gli altri, di Bembo, padre del petrarchismo cinquecentesco.

A differenza delle poetesse precedenti, la padovana Gaspara Stampa (1523-1554) proviene da una famiglia di modeste condizioni. Rimasta orfana di padre quando era ancora molto giovane, si trasferì con la madre e i fratelli a Venezia, dove, grazie a un non comune talento letterario e musicale, divenne una figura di spicco della vita mondana e culturale della città. Il suo Canzoniere, pubblicato postumo nel 1554 dalla sorella Cassandra, comprende 311 componimenti, dedicati in gran parte al suo infelice amore per il conte Collatino di Collalto, dal quale fu abbandonata dopo una relazione di tre anni. I suoi versi si caratterizzano per l’estrema semplicità con cui viene trattata la materia sentimentale e per l’assenza di complicazioni intellettualistiche.

Si distingue per una poetica decisamente originale, connotata da una natura strettamente intima e personale, Isabella di Morra (1520 ca.-1526), terza degli otto figli di Giovanni Michele Morra, barone di Favale, e di Luisa Brancaccio. Nel 1528 il padre fu costretto a emigrare insieme al secondogenito Scipione a Parigi, in seguito alla sconfitta delle truppe di Francesco I di Francia, di cui era alleato, e la vittoria di Carlo V per il possesso della penisola, lasciando così la moglie e i figli a Favale. Isabella crebbe dunque sotto la rigida tutela dei fratelli nella solitudine del denigrato sito e in una condizione di sostanziale segregazione, trovando unico sfogo nelle letture dei classici e nella composizione di versi, pur rimanendo lontana dagli ambienti letterari napoletani. Spesso invocò il padre nelle sue Rime (celebri i versi: Torbido Siri, del mio mal superbo / or ch'io sento da presso il fine amaro, / fa’ tu noto il mio duolo al padre caro, / se mai qui 'l torna il suo destino acerbo), considerandolo l'unico in grado di aiutarla nella sua difficile situazione. Gli aspri rapporti con i fratelli infatti continuarono a incrinarsi fino alla tragedia: Isabella, sospettata di una relazione con il barone spagnolo Diego Sandoval de Castro, fu uccisa dai sui fratelli insieme a quest’ultimo e al pedagogo della ragazza reo di aver favorito lo scambio di lettere tra i due.

La produzione poetica di Isabella Morra a noi pervenuta sta tutta nel Canzoniere composto da dieci sonetti e tre canzoni. Esso fu ritrovato dalla polizia spagnola tra le carte della giovane assassinata durante l'indagine che seguì l'uccisione di Don Diego de Sandoval. Pochissimi anni dopo la morte di Isabella, qualche sua poesia apparve nel terzo libro di Ludovico Dolce, che raccoglieva le Rime di diversi illustri signori napoletani (Venezia, Giolito, 1552), e fu positivamente accolta dall'ambiente letterario italiano. Non ci furono notizie ufficiali inerenti alla sua vita fino a che il nipote Marcantonio non pubblicò una storia della famiglia nel 1629. Successivamente, per circa tre secoli, di lei si sentì parlare poco fino alla riscoperta di Croce, grazie a cui oggi viene riconosciuta come una delle voci più originali della lirica cinquecentesca italiana, tanto da essere considerata una precorritrice delle tematiche esistenziali care al Leopardi, quali la descrizione del natio borgo selvaggio e l'invettiva alla crudel fortuna.

I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etate,
me che 'n sì vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna;
e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta,
essere in pregio a più felici rive.
Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.
 
Fra le poetesse petrarchiste del Cinquecento compaiono infine anche numerose cortigiane, molto spesso colte e di brillante conversazione, che frequentavano la corte pontificia. Fra queste bisogna ricordare Tullia d’Aragona (1510 ca.-1556), figlia del cardinale  Luigi d’Aragona, autrice di un trattato sull’amore platonico intitolato Dialogo sulla infinità d’amore, oltre che di un ricco canzoniere. Cortigiana fu anche la veneziana Veronica Franco (1546-1591), famosa per la sua bellezza e per le sue doti letterarie, che le valsero l’amicizia dei maggiori esponenti del mondo letterario e artistico del tempo, fra cui Bernardo Tasso, Sperone Speroni, l’Aretino e il Tintoretto, autore di un suo ritratto. Buona parte del canzoniere di Veronica Franco è occupato da epistole in terza rima, che si distinguono nel panorama della poesia petrarchista per una nota realistica e sensuale.



      Bibliografia di riferimento

  • Luciana Borsetto, Narciso e Eco. Figura e scrittura nella lirica femminile del Cinquecento, in Nel cerchio della luna: figure di donne in alcuni testi del XVI secolo, a c. di M. Zancan, Venezia, Marsilio, 1983, 171-233
  • Vittoria Colonna, Rime, a c. di A. Bullock, Bari, Laterza, 1982
  • Veronica Franco, Rime, a c. di S. Bianchi, Milano, Mursia, 1995
  • Veronica Franco, Terze rime,  a c. di Abdelkader Salza, Bari, Laterza, 1913.
  • Isabella Morra, Rime, a c. di Maria Antonietta Grignani, Roma, Salerno, 2000
  • Mario Pozzi, «Andrem di pari all’amorosa face». Appunti sulle lettere di Maria Savorgnan, in Les femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance. Acte du colloque international (Aix-en-Provence, 12-14 novembre 1992), Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 1994, pp. 87-101
  • Maria Pia Mussini Sacchi, L'eredità di Fiammetta. Per una lettura delle "rime" di Gaspara Stampa, Fiesole, Cadmo, 1998
  • Maria Savorgnan - Pietro Bembo, Carteggio d’amore (1500-1501), a c. di Carlo Dionisotti, Firenze, Le Monnier, 1950
  • Gaspara Stampa, Rime, a c. di Abdelkader Salza, Bari, Laterza, 1913
  • «L’una et l’altra chiave». Figure e momenti del petrarchismo femminile europeo. Atti del Convegno internazionale di Zurigo, 4-5 giugno 2004, Roma, Salerno, 2005, pp. 17-102
  • Marina Zancan, Rime di Gaspara Stampa in Letteratura Italiana. Le opere, Torino, Einaudi, 1993, vol.II, pp. 407-32



venerdì 28 novembre 2014

Il dono incorrotto dell’umanità - S.o.s. di gioia, è in arrivo la mia vita di Vittorio Piazza


Nel marzo scorso lo scrittore e giornalista omegnese Vittorio Piazza ha pubblicato il suo ultimo libro Il dono incorrotto dell’umanità - S.o.s. di gioia, è in arrivo la mia vita, edito da L’Autore Libri Firenze. Si tratta della sesta opera dell’autore, il quale vanta alle sue spalle una carriera ricca ed eclettica. Vittorio Piazza è, infatti, noto anche come narratore, saggista, compositore musicale, nonché collaboratore di varie testate giornalistiche locali.

C’è un percorso continuativo fra tutte le sue opere pubblicate?
Direi proprio di sì. I primi due libri, le raccolte di poesie intitolate ‘Impronte di ghiaia nella duna’ e ‘Sinergia nel bioritmo’, hanno inteso dare un iniziale impulso alla mia scrittura interiore, partendo dall’impronta che ognuno di noi lascia e dal complesso delle attività fisiche ed intellettive di ogni individuo, mentre nei successivi due saggi, ‘L’embrione dell’essere’ e ‘L’istruttoria delle ramificazioni interiori’, ho approfondito i processi introspettivi del nostro vivere. Con ‘L’idea notturna (puntini, puntine e puntelli per puntellare l’incanto)’ la poesia si commenta in un viaggio filosofico e psicologico per intravedere l’incanto nella semplicità. Infine, ne ‘Il dono incorrotto dell’umanità’ si compendia tutto: poesia, saggio, cantico, fiaba e squarci.

Cosa intende proporre con questo nuovo libro per il quale ha scelto un titolo piuttosto curioso?
Si tratta di un viaggio attraverso la vita misteriosa ed umana di un bambino che spazia tra una dimensione sferica ed interiore, interagendo con lo scrittore in una sorta di dialogo sospeso tra una sfera particolare e quella puramente umana. Il sottotitolo ‘S.o.s. di gioia, è in arrivo la mia vita’ pone l’attenzione a tutti i percorsi di una vita precaria come la nostra, partendo da quella di un bambino.

Com’è strutturata l’opera?
Come è spiegato nel compendio, l’opera è da definirsi come un saggio romanzato, filosofico e psicologico con varie incursioni: acrostici, cantici, umorismo, fiabe, innesti ed incastri ragionati, storia, archeologia, musica, massime, gettiti, pensieri, liriche, alfabeto, spazio. Tutti i capitoli iniziano con una lettera e terminano con un gettito impulsivo. Ci sono dieci decine di poesie con il corrispondente pensiero del bambino. Troverete anche diversi capitoli di saggistica, intramezzati da cantici e componimenti vari. Poi fiabe nelle quali i protagonisti sono personaggi storici, animali o città. Interessante e suggestivo è un viaggio archeologico che prende spunto da dieci steli, antichi reperti del passato, in chilometraggio non umano. In tutta l’opera ricorrenti sono gli acrostici. L’esperimento più singolare riguarda le ‘sigle della natura’, in cui un fiore, una pianta o un frutto parlano al bambino, diventando frasi vere e proprie.

Per concludere, quale significato attribuisce alla scrittura?
Chi scrive è tormentato, ma in maniera beata, perché ha sempre qualcosa da dire e scava continuamente nel profondo. E’ stupendo portare in scena il proprio vissuto, scrivendolo sulle pagine di un libro insieme alle miniere visibili ed invisibili che gli altri ci donano.”


mercoledì 26 novembre 2014

Das Fieberspital
Georg Heym interpretato da Diamanda Galás


Il celebre poeta e scrittore Georg Heym, nato Hirshberg il 30 ottobre 1887 e morto prematuramente in circostanze tragiche a Berlino il 16 gennaio 1912, è noto soprattutto come uno dei primi e maggiori esponenti dell’espressionismo tedesco. E’ ritenuto, infatti, la più singolare, potente e visionaria voce lirica del periodo, collocandosi nella triade del primo cosiddetto ‘espressionismo romantico’ insieme a Georg Trakl e Ernst Stadler.

Iniziati gli studi di diritto, per volontà del padre, Heym li ha ben presto abbandonati, distaccandosi anche agli inizi del 1900 dalla famiglia conservatrice per trasferirsi a Berlino. Lì si dedicò completamente all’attività letteraria, influenzato da Kleist e Hölderlin, nonché da Baudelaire e Rimbaud, in particolare nella visione della poesia come aperta contestazione della realtà: visioni liriche d’orrore, esaltazione della solitudine dell’individuo stretto nella morsa della città moderna e della massa, consapevolezza della catastrofe culturale che sovrastava l’Europa di quegli anni.

La maggior parte della produzione letteraria di Heym, soprattutto quella più matura, si concentra tra il gennaio 1910 e i primissimi giorni del 1912, quando muore nel tentativo di salvare un amico dall’annegamento in seguito a una spaccatura del ghiaccio durante una pattinata sul fiume Havel.

Nonostante la scomparsa improvvisa, di Heym rimane una considerevole quantità di opere. Alle raccolte poetiche Der ewige Tag (1911) e Umbrae vitae (1912), seguono i racconti Der dieb e i sonetti Marathon pubblicati postumi rispettivamente nel 1913 e nel 1914. Esiste anche un’edizione, Der Kondor, del 1912 a cura di Kurt Hiller, contenente le seguenti liriche: Berlin, Die Vorstadt, Träumerei in Hellblau, Das Blinde, Der Baum, Nach der Schlacht, Louis Capet, Die Professoren, Ophelia e Das Fieberspital.

Proprio quest’ultimo componimento di 19 stanze è stato di ispirazione alla cantante e musicista statunitense di origini greche Diamanda Galás. Questa grande artista dalla carriera trentennale ha, infatti, iniziato a presentare a partire dal settembre 2013, in occasione della partecipazione al Festival Heartland di Losanna, una performance per voce, piano ed elementi elettronici durante la quale ha interpretato i versi di Heym. La Galás ha precisato che si tratta di un work in progress. E’ prevista infatti anche una futura  inclusione di estratti da Die Daemonen der Stadt e Das Blinde.

 Diamanda Galás - Wroclaw Press Conference, December 8, 2014
"Das Fieberspital, Das Blinde, Die Daemonen der Stadt"
(Grotowski Institute)


Diamanda Galás - Das Fieberspital (The Fever Hospital) [part I]
https://www.youtube.com/watch?v=4XinQtAQwLI


Diamanda Galás - Das Fieberspital (The Fever Hospital) [part II]
https://www.youtube.com/watch?v=UX2yUhv0sBg

 
DAS FIEBERSPITAL

I
Die bleiche Leinwand in den vielen Betten
Verschwimmt in kahler Wand im Krankensaal.
Die Krankheiten alle, dünne Marionetten,
Spazieren in den Gängen. Eine Zahl



Hat jeder Kranke. Und mit weißer Kreide
Sind seine Qualen sauber aufnotiert.
Das Fieber donnert. Ihre Eingeweide
Brennen wie Berge. Und ihr Auge stiert

Zur Decke auf, wo ein paar große Spinnen
Aus ihrem Bauche lange Fäden ziehn.
Sie sitzen auf in ihrem kalten Linnen
Und ihrem Schweiß mit hochgezognen Knien.

Sie beißen auf die Nägel ihrer Hand.
Die Falten ihrer Stirn, die rötlich glüht,
Sind wie ein graugefurchtes Ackerland,
Auf dem des Todes großes Frührot blüht.

Sie strecken ihre weißen Arme vor,
Vor Kälte zitternd und vor Grauen stumm.
Schon wälzt ihr Hirn sich schwarz von Ohr zu Ohr
In ungeheurem Wirbel schnell herum.

Dann gähnt in ihrem Rücken schwarz ein Spalt,
Und aus der weißgetünchten Mauerwand
Streckt sich ein Arm. Um ihre Kehle ballt
Sich langsam eine harte Knochenhand.



II
Des Abends Trauer sinkt. Sie hocken stumpf
In ihrer Kissen Schatten. Und herein
Kriecht Wassernebel kalt. Sie hören dumpf
Durch ihren Saal der Qualen Litanein.


Das Fieber kriecht in ihren Lagern um,
Langsam, ein großer, gelblicher Polyp.
Sie schaun ihm zu, von dem Entsetzen stumm.
Und ihre Augen werden weiß und trüb.

Die Sonne quält sich auf dem Rand der Nacht.
Sie blähn die Nasen. Es wird furchtbar heiß.
Ein großes Feuer hat sie angefacht,
Wie eine Blase schwankt ihr roter Kreis.

Auf ihrem Dache sitzt ein Mann im Stuhl
Und droht den Kranken mit dem Eisenstab.
Darunter schaufeln in dem heißen Pfuhl
Die Nigger schon ihr tiefes, weißes Grab.

Die Leichenträger gehen durch die Reihen
Und reißen schnell die Toten aus dem Bett.
Die andern drehn sich nach der Wand mit Schreien
Der Angst, der Toten gräßlichem Valet.



Moskitos summen. Und die Luft beginnt
Vor Glut zu schmelzen. Wie ein roter Kropf
Schwillt auf ihr Hals, darinnen Lava rinnt.
Und wie ein Ball von Feuer dröhnt ihr Kopf.



Sie machen sich von ihren Hemden los
Und ihren Decken, die sie naß umziehn.
Ihr magrer Leib, bis auf den Nabel bloß,
Wiegt hin und her im Takt der Phantasien.

Das Floß des Todes steuert durch die Nacht
Heran durch Meere Schlamms und dunkles Moor.
Sie hören bang, wie seine Stange kracht
Lauthallend unten am Barackentor.

Zu einem Bette kommt das Sakrament.
Der Priester salbt dem Kranken Stirn und Mund.
Der Gaumen, der wie rotes Feuer brennt,
Würgt mühsam die Oblate in den Schlund.

Die Kranken horchen auf der Lagerstatt
Wie Kröten, von dem Lichte rot gefleckt.
Die Betten sind wie eine große Stadt,
Die eines schwarzen Himmels Rätsel deckt.



Der Priester singt. In grauser Parodie
Krähn sie die Worte nach in dem Gebet.
Sie lachen laut, die Freude schüttelt sie.
Sie halten sich den Bauch, den Lachen bläht.

Der Priester kniet sich an der Bettstatt Rand.
In das Brevier taucht er die Schultern ein.
Der Kranke setzt sich auf. In seiner Hand
Dreht er im Kreise einen spitzen Stein.



Er schwingt ihn hoch, haut zu. Ein breiter Riß
Klafft auf des Priesters Kopf, der rückwärts fällt.
Und es erfriert sein Schrei auf dem Gebiß,
Das er im Tode weit noch offen hält.









sabato 22 novembre 2014

Amore mio di Silvia Littardi

Una relazione sentimentale che si trasforma in un incubo e finisce in tragedia. La storia di un amore malato narrata secondo il punto di vista del carnefice. Ecco uno dei primi racconti della giovane e promettente scrittrice Silvia Littardi di Santo Stefano al Mare (IM). L'opera è tra le finaliste del Premio Chiara Giovani 2011.


Non c'è mai stato nessuno al mondo fortunato come me. Non è la solita frase precotta: lei mi aveva scelto, tra migliaia di uomini migliori aveva guardato nella mia direzione. Per questo l'ho amata, disperatamente. Sapevo che non poteva ricambiarmi con la stessa intensità, che non ero degno di un simile sentimento, ma non importava, davvero. Mi sarei accontentato delle briciole, di qualunque barlume mi avesse concesso. Ma non potevo fare a meno di vederli. Gli sguardi che cercavano di portarmela via. Quei disgustosi maiali la spogliavano con gli occhi, insudiciavano la sua purezza. E un giorno sapevo che sarebbe successo, io non ero abbastanza, lei mi avrebbe lasciato, messo da parte. Per uno di quelli. Ho dovuto farlo.


Non potevo dividerla col resto del mondo, capite?


Lei ha capito che era la cosa giusta, l'unica maniera per restare insieme per sempre. Ha capito che era il gesto d'amore più estremo che potessi dedicarle. Mi ha implorato con gli occhi di farlo, mentre le tenevo una mano sulla bocca, con i nostri visi così vicini, le ho visto versare una lacrima. Il coltello intanto le incideva la gola, lentamente, dolcemente. E' tutto finito, amore mio.


All'inizio forse sono stato un po' brusco, ma è semplice da capire, non ragionavo lucidamente, non ancora. Avevo una visione limitata della situazione, era solo per questo che non riuscivo a spiegargliela. Altrimenti so che ci saremmo intesi subito.


E' un peccato che da piccoli malintesi possano nascere situazioni così spiacevoli. Abbiamo rimesso tutto a posto, lo so, ma ci sono stati dei momenti difficili da superare.
Come quando le ho preso il cellulare. L'avevo pregata più volte di darmelo, ma non riusciva a capire che era per la sua sicurezza. Avrebbero potuto importunarla con chiamate inopportune, o peggio, con messaggi volgari. Forse già lo facevano. Lei non me lo avrebbe mai confessato per non turbarmi: anche se glielo avessi chiesto, lei avrebbe continuato a negare. Così ho pensato fosse più semplice estirpare il problema alla radice.
Oppure quando l'ho legata al letto. All'inizio era scombussolata, ma poi l'ho convinta che era la cosa migliore. La viziavo come una principessa, lei non doveva pensare più a niente. Era una tale gioia cucinare per lei, portarle i pasti sul vassoio. Lo adornavo sempre con un fiore, ogni volta uno diverso, così poteva vedere anche lei che ormai stava arrivando la primavera. In realtà credo che abbia sentito il cambio di stagione: povera la mia stellina, faceva sempre più fatica ad addormentarsi, era un po' ansiosa. Per fortuna in casa avevo tutto l'occorrente per guarirla.


Amavo guardarla dormire. Sembrava così fragile e indifesa. Sarei potuto restare delle ore a fissarla: a volte, quando il suo sonno era abbastanza profondo, mi chinavo a baciarle la nuca, allora sentivo il suo profumo. Era una gioia così grande che mi venivano le lacrime agli occhi. Lei invece non ha mai pianto. Di questo posso andare fiero: non l'ho mai resa infelice, sino alla fine.


Ci siamo conosciuti per caso, sapete? O almeno, l'ho fatto sembrare un caso. Lei non sapeva nemmeno della mia esistenza, ma io l'avevo già notata da tempo, ora non ricordo nemmeno per quanto tempo mi sono limitato a guardarla, sognando ad occhi aperti. Avevo paura ad avvicinarla: era così bella, sembrava una persona così dolce, che temevo di scoprire come fosse fatta realmente. Magari era incredibilmente sciocca, avrebbe potuto essere brusca e antipatica con me, senza motivo, forse era meschina o bugiarda o volgare nell'esprimersi. A ripensarci adesso non posso non sorridere di me stesso: tutti quei dubbi erano assolutamente infondati.


Le chiesi un'informazione alla fermata dell'autobus e lei fu deliziosa con me. Le quattro chiacchiere davanti ad un caffè diventarono una cena e una passeggiata sino a casa sua. Parlammo per ore, di qualunque cosa, riuscendo a smettere a fatica sotto casa sua.
Tutto il resto è storia: fu estremamente spontaneo e naturale, come se ci fossimo aspettati a vicenda per troppo tempo e finalmente ci fossimo ritrovati.


Adesso è tutto finito, ma non pensate che io sia triste. A dire il vero è come se fosse scesa un'immensa serenità su di me. Sono in pace come se mi fossi tolto un gran peso dal petto. Non potevo fare di più, non ho nulla da rimproverarmi, lei lo sa. Il finale perfetto non poteva essere altrimenti: la nostra felicità è inalterabile e lei rimarrà per sempre nel mio cuore, sorridente, innamorata, mia.